Ho trent’anni. Non ho ancora il mio studio privato. Non so neanche se mai riuscirò ad aprirlo uno studio tutto mio.
Ecco, se fra vent’anni avrò due stanze di un vecchio appartamento smembrato tra dentisti e ragionieri, non metterò quadri osceni come questi alle pareti e piante così rancide all’ingresso. Le tende non saranno tanto spesse da bloccare la luce. Anzi, non ci sarà nessuna tenda. Il mondo deve vedere quello che accade dentro il mio studio. I miei pazienti devono vedere il mondo.
La Dottoressa Loretta Gigli era la psicologa di mia zia Paola prima che lei si trasferisse a Milano per scappare, finalmente, da quel delinquente di mio zio. Pace all’anima sua.
È stata mia zia Paola a chiedere alla Dottoressa Gigli di assumermi. Part-time, contratto a tempo determinato, sei mesi in quest’ufficio.
“Mia nipote Giada è bravissima, sai. È solo tremendamente sfortunata. Ha la laurea in psicologia, ha passato l’Esame di Stato e tutti i weekend ha frequentato la scuola di specializzazione. È una… non mi ricordo… come si dice? Psicologa dell’infanzia? Insomma, Giada sa curare i bambini. È eccezionale, perché non la assumi?”
Questo è il mio terzo mese qui dalla Dottoressa Gigli. Sono a metà, la metà esatta del mio contratto.
Penso di cavarmela abbastanza bene. Ho cinque bambini da seguire. Per lo più hanno problemi di apprendimento (linguaggio, deficit dell’attenzione, dislessia) e iperattività. Vedo la maggior parte di loro una volta a settimana. Ci incontriamo due volte in sette giorni solo quando le sedute prevedono anche la presenza dei genitori. Con dei genitori così, mi stupisco che questi cinque bambini non siano già dei piccoli Hitler con il ciuccio.
Oggi è venerdì pomeriggio e sono sola nello studio della Dottoressa Gigli. Di solito il venerdì dopo pranzo si chiude a chiave lo studio e non si effettuano più visite fino al lunedì mattina. Per questo dedico il venerdì pomeriggio alle lezioni private. Aiuto Lucia, una studentessa di 22 anni, a preparare i suoi esami di psicologia. Non so perché, ma da tre settimane siamo arenate sui libri di biostatistica. In fondo, a cosa serve la statistica quando davanti a te hai dei pazienti in lacrime?
Oggi ho dovuto rimandare la mia lezione con Lucia.
“Pronto? Ciao Giada, sono Loretta. Domani potresti rimanere anche il pomeriggio? C’è una bambina con una situazione un po’ delicata, ma il padre può accompagnarla solo il venerdì pomeriggio. Il quadro clinico è piuttosto semplice, per quanto poco piacevole… Ti spiego domattina.”
Così stamattina ho conosciuto il quadro clinico di Silvia. Quadro clinico: due, tre frasi al massimo che etichettano il malessere profondo di un essere vivente. Buffo come le parole possano in poche sillabe riassumere la vita, no?
Silvia ha otto anni e due settimane fa sua madre è morta di cancro. Dal seno la bestia si è diffusa alle ossa e non c’è stato più nulla da fare. Da due settimane Silvia non parla più. Va a scuola normalmente, come sempre, ma non emette suono. Non piange, non grida, a volte tossisce, altre senti il rumore di un suo sbadiglio. Sua padre la notte, nel lettone sdraiato accanto a lei, si avvicina il più possibile l’orecchio alla bocca di Silvia per poter sentire qualche sibilo, per poter riportare alla mente la voce della figlia che correva per la casa urlando “Mamma, possiamo invitare Giulia a pranzo domani?”
Ora Silvia è davanti a me. Ha degli occhi bellissimi, color nocciola, che vagano inquieti in cerca di un appiglio in questa stanza con le piante rancide e le tende pesanti alle finestre.
“Silvia, ho bisogno di te. Questa stanza è troppo bianca, spoglia. Voglio che tu mi aiuti a colorarla un po’.”
Giù, nella cartolibreria del signor Righi, vicino al bar dove pranziamo sempre con la Dottoressa Gigli, ho comprato un rotolo di carta alto 1 metro e lungo 2. Lo ho attaccato alla parete vuota dello studio, rasoterra.
Prendo un pennarello verde, la tonalità di verde più chiara che c’è nella scatola comprata dal Righi, e disegno una foglia. Una foglia di un albero senza specie staccata da un ramo, da una pianta che chissà dove ha le sue radici.
“Eccoci, ci risiamo”, mi dico tra me e me, “ancora una volta sono costretta a psicanalizzare me stessa per guarire un paziente.”
Silvia si avvicina a me. No, non può aver capito.
Snobba gli altri pennarelli della scatola e prende proprio il verde tra le mie mani. Con i tratti goffi dei bambini di prima elementare disegna un’altra foglia più piccola accanto alla mia, quasi attaccata.
Vorrei piangere, ma non è il caso. Vorrei piangere io che da anni piango poco, nascosta in camera, solo quando il mio fidanzato è fuori città per lavoro.
Mia madre è morta cinque anni fa e oggi, forse mai come negli ultimi anni, sento il vuoto della sua assenza riempirmi lo stomaco.
Mi sono sempre ripetuta e mi ripeto anche adesso, di fronte a Silvia, che perdere la propria madre a 25 anni non fa così male come perderla a 8 o a 16. Avevo appena superato l’Esame di Stato di psicologia quando è morta mia madre. Silvia non avrà acconto sua mamma neanche per la Prima Comunione. Mia madre non ci sarà, seduta sulla prima panca della Chiesa, fra tre mesi quando, alla scadenza di questo contratto che non so se sarà rinnovato, mi sposerò.
Ma Silvia non ascolterà imbarazzata sua madre che le spiega cosa sono le mestruazioni, come si curano le vesciche per i tacchi troppo alti, come ci si depilano le gambe e tutte quelle cose che spiegate da un’amica hanno tutto un altro significato.
Per 25 anni mia madre c’è stata. Io ho avuto modo di conoscerla, di cercare di scoprirla. Lei che ha sempre parlato poco di sé.
Mia madre oggi non è solo un ricordo sbiadito o una fotografia sul comodino.
Mia madre ha plasmato il mio cuore per 25 anni, 3 volte e 1 anno in più rispetto al tempo che Silvia ha avuto a disposizione. Io per 8 anni, tutta la vita di Silvia, ho visto soffrire mia madre e sono stata male per lei, con lei.
Io non posso piangere. Io non posso lamentare un dolore che Silvia non ha neanche gli strumenti per metabolizzare.
Prendo un verde più scuro dalla scatola di pennarelli e disegno un ramo che unisce le due foglie sul pannello bianco comprato dal Righi.
Canticchio un po’ mentre disegno. È una vecchia canzone che mi cantava mia madre ad accarezzarmi le labbra. Disegno per me e non per Silvia. Mi sono scordata quali sono i rispettivi ruoli in questa stanza. Dovrebbe essere un male, no? Eppure sento che è la cosa giusta.
Delle lacrime scendono e mi bagnano la mano sinistra, ma non sono io a piangere.
Silvia singhiozza e mi abbraccia.
“Voglio la mia mamma”, mi dice.
“Anch’io, piccolina, anche io”, le rispondo stringendola forte a me.
Uno dei testi più toccanti che abbia mai letto.
Un grande abbraccio.
Uno dei testi più toccanti che abbia mai letto.
Un abbraccio.
Grazie Sara!
Mi dispiace non essere in grado di leggere il tuo blog 😦
Mi sarebbe piaciuto conoscere la tua storia!
Salutoni 🙂
ilaria
oops! pensavo che l’account rimandasse a http://www.saraburbi.com il mio sito in inglese, non a quello in svedese 😉
La mia storia potrebbe essere un po’ lunghina, comunque un capitolo parla dei primi anni 90, del trasloco in Gabon, di mia madre e del cancro che ha superato. Oggi ho il doppio degli anni che avevo allora e non passa giorno che non pensi a quanto la mia famiglia sia stata fortunata.
Sono finita sul tuo blog perché secondo Google un’amica di cui ho perso i contatti sarebbe in una delle tue foto. Ma Google non è infallibile.
Vagando son finita su questo post e dopo averlo letto ho deciso di lasciare un commento, seppur breve. La forza che trasmetti col tuo racconto mi ha commossa. Quindi… grazie 😀
Ciao Sara!
Welcome back 🙂
Sono riuscita a spulciare un po’ nella tua vita grazie al tuo sito. Anche io come te non ho più fb né google+ e ti dirò, ho anche eliminato twitter. Da appassionata (e un po’ esperta, vista la mia specializzazione universitaria) del web, sono convinta della totale freddezza dei social network. Non fanno per me… io sono un’impulsiva dall’aspetto nordico ma dal cuore latino 🙂
Brava, brava! Hai viaggiato e viaggi tanto. Io, per paura più che altro, mi sono limitata a pochi posti in Europa…. Il fatto di dover andare qualche mese a Parigi per il mio dottorato mi terrorizza.
Ho paura e ho tanto dolore nel cuore. Ma la mia forza sta nel sapere ammettere le mie fragilità.
Un abbraccio 🙂